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9. La quinta sala. Gli strumenti dell’orchestra

Ha qui inizio la sezione del Museo sistematicamente dedicata alla collezione di strumenti musicali. La raccolta comprende oltre settecento pezzi e può essere ammirata nella sua interezza tra primo e secondo piano. Alcuni strumenti facevano già parte della raccolta di Carlo Schmidl, altri si sono aggiunti negli anni grazie a donazioni e acquisti.

In questa sala si possono ammirare strumenti appartenenti alla cultura musicale europea cosiddetta “colta”. Sono, per la maggior parte, gli strumenti della moderna orchestra, che hanno contribuito al progresso della storia della musica occidentale. I pezzi più antichi risalgono al XVIII secolo e sono testimonianza dell’evoluzione che gli strumenti hanno subito nel corso dei secoli per venire incontro alle esigenze e all’estro dei compositori, ai mutamenti di gusto del pubblico, alle richieste dettate dagli spazi in cui la musica veniva eseguita e ascoltata. La dislocazione nelle vetrine ripercorre idealmente le diverse sezioni dell’orchestra e comprende anche una parte dedicata a liuti e mandolini.

La liuteria triestina

Fu Giovanni Dollenz a dar avvio nei primi anni dell’800 a una significativa produzione locale che avrebbe dato il via a una vera e propria scuola. I suoi strumenti sono costruiti solidamente, con grande abilità e cura per l’essenziale. Il figlio Giuseppe avrebbe proseguito l’attività nella bottega, dove si trovava anche Vincenzo Corain. Alla scuola del giovane Dollenz si formò un gruppo di entusiasti estimatori della grande liuteria cremonese: fra questi Eugenio Weiss, che firmò lo strumento in esposizione appartenuto a Carlo Stuparich.

Un altro liutaio che operò a Trieste dopo il 1860 fu Enrico Magrini, ingegnoso e poliedrico costruttore, del quale il Museo conserva anche un flauto d’amore.

Opera del triestino Ferruccio Zanier è un violino dall’insolito aspetto squadrato, testimone di un’epoca, gli anni ’30 del ’900, in cui in tutti i campi dell’arte era forte la spinta verso il rinnovamento delle forme e la sperimentazione.

Due violini al fronte

Nato a Trieste nel 1894, Carlo Stuparich nel 1913 raggiunse a Firenze il fratello Giani, seguendone le orme nell’ambiente della rivista La Voce. Arruolatosi volontario durante la Prima guerra mondiale nelle file dell’Esercito italiano, il 30 maggio 1916, circondato dal nemico sull’altopiano di Asiago, preferì darsi la morte piuttosto che cadere prigioniero. Per rendere più sopportabile la vita di trincea Stuparich aveva portato con sé il suo violino. Lo strumento era stato costruito dal triestino Eugenio Weiss nel 1892 con il legno recuperato dalle travi dell’Imperial Regia Dogana, demolita nel 1890 per far posto all’attuale Palazzo delle Poste. Il violino porta ancora i segni della dura esperienza di guerra: le “effe” sulla tavola armonica appaiono stranamente manomesse. Probabilmente lo stesso Stuparich, utilizzando attrezzi di fortuna, fu costretto a riposizionare l’anima collocata dentro lo strumento, spostatasi forse a causa delle cattive condizioni di conservazione.

Gianni Pavovich, nato a Smirne nel 1897, visse a Trieste, dove iniziò gli studi alla scuola di Arturo Vram per poi proseguirli alla Reale Accademia di Musica di Budapest sotto la guida di Jenö Hubay. Dopo la guerra, divenne primo violino del Quartetto Triestino. In seguito, dopo una significativa tournée come primo violino dell’orchestra del Teatro alla Scala diretta da Arturo Toscanini, alternò l’attività concertistica come solista e come primo violino di spalla nell’orchestra del Teatro Verdi all’insegnamento. Durante la Grande Guerra fu arruolato come sergente nell’Esercito austro-ungarico. Anche Pavovich portò con sé il suo violino e riuscì persino a organizzare una piccola orchestra.

I due violini, trovatisi casualmente vicino a due triestini sui fronti opposti del medesimo conflitto, costituiscono, all’interno delle collezioni del Museo Teatrale, un documento storico di alto contenuto simbolico.

La viola d’amore

La famiglia delle viole è nata dalle vielle medioevali che venivano usate nelle corti e nelle strade di tutta Europa, predilette da menestrelli, giullari e trovatori e come accompagnamento al canto polifonico, tanto sacro quanto profano. Durante il Rinascimento esse costituivano una famiglia molto eterogenea, in cui si distinguevano viole da gamba e viole da braccio. Tra queste ultime, compare la viola d’amore, strumento rimasto popolare durante il periodo barocco. Il primo a farne menzione parrebbe essere stato lo scrittore inglese John Evelyn, che la cita nel suo diario del 1679, descrivendola come «il più dolce e sorprendente strumento che io abbia mai sentito».

Il fortepiano Stein

L’autore, ultimo di una famiglia di costruttori originari di Augusta, utilizzò per la meccanica dello strumento un sistema messo a punto già da suo nonno e passato alla storia come “meccanica viennese”. Tra i suoi più autorevoli estimatori figura Mozart che così lo descrive: «preferisco gli strumenti di Stein […]. Anche quando colpisco con forza, il suono cessa subito appena l’ho fatto sentire […]. Posso toccare la tastiera come voglio e il suono resta sempre lo stesso, non striscia, non è mai più forte o più debole, non è mai mancante; insomma, va sempre bene».

Il glicibarifono

Il XIX secolo fu segnato da una notevole spinta innovativa nell’ambito degli strumenti musicali. L’utilizzo di compagini orchestrali sempre più cospicue, le grandi sale da concerto e lo sviluppo del genere melodrammatico invitavano i compositori a una sempre più raffinata ricerca timbrica e all’invenzione di soluzioni inedite. In questo contesto Catterino Catterini inventò uno speciale tipo di clarinetto basso, con voce di clarinetto negli acuti e di corno di bassetto e fagotto nei bassi. Il glicibarifono conservato a Trieste è uno dei pochi esemplari di questo strumento ancora esistenti.

Le trombe dell’Aida

Le tre trombe lunghe esposte sono un modello molto simile a quelle fatte costruire appositamente da Giuseppe Verdi per la marcia trionfale del secondo atto di Aida. Esse dovevano essere suonate in scena, davanti al pubblico, perciò Verdi aveva voluto che ricordassero trombe simili a quelle dell’iconografia egizia.

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