Visite guidate mercoledì 25 settembre ore 17.00 e sabato 28 settembre ore 11.00
Ultimi giorni per visitare nella Sala “Attilio Selva” di Palazzo Gopevich (Via Rossini, 4) la mostra del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl” «ZIGAINA IN SCENA», realizzata nella ricorrenza del centenario della nascita di Giuseppe Zigaina (Cervignano del Friuli 2 aprile 1924 – Palmanova 16 aprile 2015) e nell’ambito del progetto «Zigaina 100 / Anatomia di una immagine».
La mostra rimane aperta fino a domenica 29 settembre, a ingresso libero, con orario 10-17. Sono in programma due visite guidate a cura di Cristina Zacchigna, mercoledì 25 settembre alle ore 17.00 e sabato 28 settembre alle ore 11.00. Il catalogo è acquistabile in mostra.
L’esposizione è incentrata sui tre lavori progettati da Zigaina per le scene del Teatro Verdi di Trieste tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta: «Il convitato di pietra» di Aleksandr Sergeevič Dargomyžskij (1969), «Carmen» di Georges Bizet (1970) e «Goyescas» di Enrique Granados (1982). A dialogare con i bozzetti di queste tre produzioni sono presenti in mostra i tre dipinti di Zigaina di proprietà del Museo Revoltella, per un omaggio al Maestro attraverso le sue opere custodite nelle civiche collezioni.
Curata da Stefano Bianchi e Cristina Zacchigna, con la collaborazione di Elisabetta Buffulini, Emilio Medici e Cristiano Rossetti, la mostra si avvale del contributo di Franco Però e Susanna Gregorat, del coordinamento amministrativo di Francesco Recanati e del progetto grafico e di allestimento di BASIQ. Ad arricchire la rassegna di materiali di proprietà del Civico Museo Teatrale “Carlo Schmidl”, i prestiti della Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”, del Museo Revoltella e della Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte.
Zigaina incontra la prima volta il teatro con la scenografia per «I giusti» di Albert Camus, in scena al Teatro Auditorium di Trieste nella stagione 1966-67 (prima rappresentazione giovedì 23 febbraio 1967). Non ci rimangono i bozzetti, ma solo le foto di scena dello spettacolo. Sono tre le ambientazioni richieste nei cinque atti in cui si dipana questo dramma, ma Zigaina le trasforma in un’unica scena: un ambiente chiuso da quinte materiche fortemente segnate, con un’apertura sulla destra verso il fondo, dove trovano posto alte finestre, la grata di una prigione e, ancora, alte finestre. L’idea è semplice e forte, rigorosa: un solo luogo a raccontare quell’universo racchiuso e asfittico dove sono obbligati a vivere i protagonisti del dramma.
Questa prima esperienza teatrale trova ampia eco nella ricca serie di bozzetti realizzati per «Il convitato di pietra» di Aleksandr Sergeevič Dargomyžskij per la stagione lirica 1968-1969 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi (prima rappresentazione giovedì 6 marzo 1969). L’opera è una delle innumerevoli rivisitazioni del mito di Don Giovanni, composta tra il 1866 e il 1869 da Dargomyžskij, rimasta incompiuta, portata quindi a termine da César Cui e orchestrata da Nikolaj Rimskij Korsakov. Per Trieste è una prima assoluta. È l’opera di cui rimangono più bozzetti. I motivi di questa ricchezza? È il primo confronto con un’opera. L’eccitazione sperimentale e l’insicurezza per la poca conoscenza dello spazio scenico si fondono con altri e più intimi motivi: quel Convitato di pietra immaginato come la figura di un padre onnipresente.
Di ben altra notorietà, rispetto a quella del «Convitato di pietra», gode la partitura «Carmen» di Georges Bizet. Nella stagione 1969-1970 (prima rappresentazione mercoledì 18 marzo 1970), l’opera va in scena per la nona volta al Teatro Verdi (la prima italiana aveva avuto luogo a Napoli nel 1879, la prima a Trieste nel 1886). Per la prima scena Zigaina parte dalla soluzione proposta per l’inizio del «Convitato»: luoghi aperti, gradoni sulla sinistra, il muro che esce verso destra, le reminiscenze delle sbarre e di una statua. Nell’osteria di Lillas-Pastia del secondo atto le tinte diventano fosche, con violenti contrasti di luce: un muro di fondo immaginato come se fosse trafitto dalla ferocia dei tagli e quella zona oscura ‘in prima’ a sinistra; gli elementi realistici sono ridotti all’essenziale. Eppure ancora qui il pittore vuole la sua particolare cifra. Nelle incisioni del periodo tra gli anni ’60 e ’70 quante volte quel bianco taglio orizzontale compare a separare un sotto da un sopra? Poi il luogo selvaggio e remoto sui monti del terzo atto. Dal bozzetto promana una forte matericità che gli scenografi realizzatori del Verdi hanno saputo tradurre senza che andasse perduta la forza di quella ideazione. È l’ultimo atto, il luogo fuori la Plaza de Toros, che pare riportarci al clima dell’inizio dell’opera, perché quel muro a gradoni che separa il luogo dell’azione dall’Arena, spezzando in due uno spazio di cui anche la parte non vista è spazio scenico, riporta continuamente in primo piano la drammaticità della situazione.
Passa una dozzina d’anni prima di un nuovo e ultimo ritorno di Zigaina sulle scene del Verdi con «Goyescas». Tale ritorno è preceduto da un’altra esperienza con il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Per la stagione 1979-1980, Giorgio Pressburger e Sergio D’Osmo coinvolgono Zigaina nell’allestimento al Politeama Rossetti di «Calderón» di Pier Paolo Pasolini, il lavoro dell’amico “ontologico”, assassinato cinque anni prima (prima rappresentazione mercoledì 16 aprile 1980). Il Maestro non firma la scenografia, ma crea degli interventi visivi, dei quali non rimane traccia, se non nel ricordo di chi ha collaborato all’allestimento. Ed è grazie a questi e soprattutto a Pierpaolo Bisleri, all’epoca assistente di D’Osmo, che veniamo a scoprire questo piccolo mistero: erano delle proiezioni di opere di Zigaina. Non lavori immediatamente riconducibili al Calderón, quanto testimonianze di quella affinità elettiva che univa i due artisti.
Il cerchio si chiude nella stagione lirica 1981-1982 con «Goyescas», altro titolo nuovo per il Verdi (prima rappresentazione giovedì 4 febbraio 1982). Composto da Enrique Granados utilizzando il materiale musicale dell’omonimo ciclo di sei pezzi per pianoforte (datato 1909), il lavoro ebbe la sua prima rappresentazione assoluta al Metropolitan di New York nel 1916 e la sua prima italiana al Teatro alla Scala di Milano nel 1937. In un atto unico suddiviso in tre quadri (esterno, interno e ancora esterno) si consuma il dramma di amore, gelosia e morte che ha per protagonisti il torero Paquiro, l’ufficiale Fernando e la nobile dama Rosario. È nell’ultimo quadro, il Giardino di Rosario, che, come forse mai prima, la pittura si fa scenografia. Gli elementi si fondono in maniera tale che il giardino è nel contempo luogo d’amore e di morte, esattamente come richiede Granados. I temi cari a Zigaina si compenetrano in grande armonia: un’armonia ovviamente noir.
I lavori per il teatro si intersecano cronologicamente con i tre dipinti di proprietà del Museo Revotella. Sin dal 1953 il Museo Revoltella scelse di rappresentare nelle sue collezioni l’opera di Giuseppe Zigaina, giovane artista friulano già affermato in ambito locale e nazionale, che aveva già esposto alla Biennale di Venezia, aveva collaborato con Pier Paolo Pasolini e aveva fondato le basi del movimento realista con Renato Guttuso e Armando Pizzinato.
A tale indirizzo stilistico è ispirato il dipinto «Braccianti sul carro» (1953). Protagonisti sono undici braccianti del basso Friuli che percorrono una strada sterrata; la rigorosa struttura compositiva, che integra le figure nel paesaggio circostante, è fortemente sostenuta dal colore brillante, che trasfigura in chiave simbolica il dato reale.
Nel 1967 venne acquisita l’opera «Il fucilato» (1966), che documenta la fase stilistica in cui Zigaina traspose nei suoi lavori l’esperienza del secondo conflitto mondiale. In un paesaggio surreale si distinguono appena i poveri resti di un soldato assassinato, abbandonati sul terreno spoglio, contrapposto allo sfondo altrettanto desolato e incisivo per l’intensa colorazione verde.
Risale al 2009 l’arrivo al Revoltella del dipinto «Dal colle di Redipuglia: un radioso mattino» (1973), che appartiene alla serie intitolata «Dal colle di Redipuglia». La tematica, ispirata al Sacrario Militare di Redipuglia, che custodisce le salme di 100.000 combattenti della Grande Guerra, crea un contrasto incredibile con la pittura che la rappresenta.